“Sorelle, cosa fate in concreto? Le abbracciamo perché si sentano amate!”
E’ un progetto intercongregazionale di 3 congregazioni femminili e maschili, con alcune laiche, per l’accompagnamento di un gruppo di donne trans. Tutte in situazione di prostituzione, tranne un paio di loro che sono riuscite a trovare un lavoro fuori della strada.
“Queste ragazze vivono una doppia marginalità: per essere donne trans e in situazione di prostituzione. Per noi non sono destinatarie di un progetto, ma terra sacra, ognuna di loro. Cerchiamo di creare comunità, famiglia e farle sentire accolte, accettate e amate. Anche se non lasciano la strada.”
Non daremo i nomi delle congregazioni impegnate in questa missione: siamo consapevoli che, purtroppo, c’è ancora molta resistenza verso questa missione con le persone LGBTQ+ al punto che, in Italia, molte religiose e religiosi vi si dedicano nel sottobosco ecclesiale e in silenzio. Non pochi di loro sono stati, gentilmente, invitati a non continuare.
Come nel sottobosco vivono tante donne come Paula, Ilenia, Carol (tutti sono nomi di fantasia). “Ieri sono stata a casa di I.: un quartiere bello, pulito. E ti domandi: si renderanno conto le persone che vivono qui che ci sono vicine di casa in situazioni di prostituzione e di sfruttamento? Avvicinarmi al mondo della strada mi ha spinto a comprendere tante realtà diverse di una città come Roma, sconosciute ai più.” Racconta M. una suora impegnata nel progetto.
Questa missione è nata per caso, un caso che solo lo Spirito Santo conosce: un gruppo di suore ha iniziato a partecipare alle unità di strada che uscivano di notte a Roma per avvicinare donne in situazione di prostituzione, per parlare con loro, offrire qualcosa da mangiare. Dopo questa esperienza, le suore iniziano a bussare a diverse porte della Diocesi per mettersi in rete con altre organizzazioni che operavano nello stesso ambito. In una delle prime riunione sorge la domanda: chi si occupa delle donne trans in strada? “Abbiamo iniziato facendo una mappa della zona e individuare una zona libera da altri gruppi. È stato il nostro primo contatto con R. e F., con le quali continuiamo il cammino di Agar, così lo abbiamo definito. Abbiamo scelto di accompagnare le trans perché le donne in situazione di prostituzione hanno più opportunità di essere aiutate. Per le donne trans è più faticosa l’inclusione e l’accettazione. Spesso si sentono guardate con sospetto. Hanno delle storie di dolore ancora prima di arrivare in Italia.” Racconta C., un’altra religiosa del gruppo.
Le suore coinvolte nel progetto mi raccontano che per loro la prostituzione è sempre stata un’inquietudine, sentivano che nessuno si occupava di questo ambito in modo sistematico. Raccontano si essersi sentite che la strada era il loro luogo di missione: “Il Signore mi chiedeva di essere lì senza timore, con prudenza perché la strada può essere pericolosa, ma senza paura. Ho sentito come se il Signore mi venisse incontro: perché è un luogo di grande emarginazione. Molte di loro sentono di non aver altro luogo che la strada.”
Queste sorelle non sono sole: le congregazioni le appoggiano e supportano. Spesso si sentono dire che è pericoloso, che possono ucciderle. Loro rispondono che sentono che il Signore mostra loro un cammino e, con cuore aperto, lo percorrono. “Non è un tema per noi, è vita, vita da promuovere e di cui prendersi cura”, dicono.
L’obiettivo di questa missione è farsi prossime, avvicinarsi. “Un giorno una ragazza che si traveste per lavorare, mi ha detto che la prima volta che l’abbiamo avvicinata, l’abbiamo abbracciata. Lei è rimasta positivamente colpita da questo. Chi le aiuta, spesso, si tiene a distanza, le guarda dall’altro in basso.”
Questo gruppo non si ferma mai, anche nei momenti di festa o in pieno agosto, continuano a vedersi e fare comunità. C’è un modo di essere presenti e questo di non ‘andare in ferie’ fa che loro rispondano con fiducia alla dinamica vitale dell’incontro.
L’obiettivo di questa pastorale? Che si sentano amate e che si sentano di valere ai loro propri occhi; che possano sognare di fare altro oltre alla strada; alcune ascoltano per la prima volta cosa il loro cuore desidera e osano esprimerlo, senza paure; osano vedersi con altri occhi dalla prostituzione.
“Un giorno una di loro mi ha raccontato che parlava italiano solo con i clienti. Così abbiamo iniziato per loro un corso di italiano, perché si aprissero i loro orizzonti e si sentissero con più potere (empowered).”
L’intento delle sorelle che accompagnano questo gruppo di donne trans non è necessariamente farle uscire dalla strada: perché questo accada, devono potersi costruire un’alternativa professionale e trovare un impiego. Un impiego non è facile per delle donne che si sono viste e sono state viste sempre e solo attraverso la lente dell’oggettivazione sessuale. È difficile per loro assumere un comportamento non mediato dal corpo. Nel gruppo scoprono altre dimensioni di loro stesse, oltre il linguaggio della sessualità.
Ho chiesto alle sorelle come si sentono quando non riescono a costruire insieme alle donne un’alternativa: “Impotenti ma di un’impotenza relativa, perché già solo l’esistenza di questo gruppo significa per loro una spinta a darsi un’altra possibilità. Noi non chiediamo loro di uscire; lo decideranno se vogliono, ma sentono di avere uno spazio per scoprire cose nuove e vivere un’aria diversa.”
E’ bello vedere come la sola presenza attenta e senza giudizio fa sperimentare a queste donne la possibilità di sorprendersi di essere altro oltre il loro lavoro. Non viene proposto loro un cammino di fede, spesso solo loro stesse a chiedere di fare qualcosa. Le religiose e religiosi impegnati in questo cammino sono felici che loro sentano di poter avere accesso alla fede.
“Noi non proponiamo loro di uscire dalla prostituzione: questa può essere solo un’opzione personale. Per farlo loro hanno bisogno di un piano B: noi creiamo le condizioni e le facilitiamo nella creazione di questo piano B.
E’ ovvio che finché no trovano un lavoro non possono lasciare la strada. L. e B. stanno lavorando fuori, altre si stanno formando per cercare un’alternativa.”
La condizione di prostituzione porta anche una irregolarità burocratica: molte di loro sono prive di documenti e questo le rende molto vulnerabili e insicure.
Le sorelle le accompagnano anche per ottenere ciò che è loro diritto.
“La nostra proposta è ‘conosciamoci e siamo amiche’. Non siamo salvatrici e salvatori. Loro ci cambiano e noi cambiamo loro.”
Questa esperienza che vi abbiamo raccontato ha tanti alti e bassi. Non è tutto rosa. “Quando ci sono i bassi è dura per loro: perdono la fiducia e dobbiamo lasciare loro il tempo di elaborare; ognuna ha diritto al suo tempo e noi continuiamo ad accompagnarle anche se fanno cose che non condividiamo.”
All’inizio non sempre le sorelle che si recano in strada vengono accolte bene: possono ricevere insulti o minacce. È il tempo che costruisce la fiducia. Chi si sente sempre brutalizzato dentro una relazione oggettivante, fa fatica a credere che qualcuna/o possa essere interessato al suo cuore.
Anche la presenza di due uomini nel gruppo promotore è essenziale: per le donne trans riscoprire una relazione con il maschile fatta di rispetto, limiti, dignità è come un balsamo per la loro identità ferita.
Questo contesto di relazioni rispettose e sane fa cambiare il loro modo di rapportarsi agli altri e a sé stesse: quando iniziano a chiedere qualcosa (cosa non facile per loro), ci si rende conto che il legame si è costruito.
“All’inizio mi sentivo sotto pressione, di fronte al dolore dell’altra, e ho iniziato a prenderlo con leggerezza e allegria, divertendomi con loro. Questo ci ha permesso di fare un cammino insieme. Cambiamo insieme: loro entrano nel nostro mondo e noi nel loro. Quando fanno battute sulla Chiesa, ridiamo insieme. Questo rompe barriere e pregiudizi reciproci.” Racconta una delle religiose del progetto.
Questo progetto ci insegna che non siamo super-eroi e accettare la propria fragilità e impotenza in una missione che non garantisce nessun successo è un’esperienza di resilienza comunitaria. È una missione che mette in gioco tante emozioni e pone tante domande.
“Sento che stiamo attuando come farebbe Gesù: non mettersi in piedi davanti a queste donne ma insieme a loro come donne e uomini feriti; non ci differenziamo in dignità con le donne con le quali ci relazioniamo. Loro mi hanno cambiata con il loro ‘cariño’, affetto. Sono immediate: hanno questa cosa maschile di dire e portare fuori tutto, sia ciò che amano e sia ciò che non piace loro.”
Fare pastorale è un po’ lasciarsi toccare e amare dall’altra, dall’altro nella reciproca vulnerabilità. Credo che tutte e tutti noi, almeno una volta, abbiamo sperimentato questo.
Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Testimoni (dicembre 2023)